Chiamavamo chioschetti quei luoghi, molto diffusi un tempo nelle città russe, dove potevi comprare dello street food confezionato tipo pesce secco, pistacchi e patatine al gusto di erba cipollina e smetana (la smetana è una panna acida molto utilizzata nella cucina Russa, da non confondersi Bedřich Smetana, noto compositore ceco famoso per il poema sinfonico La Moldava; attenzione altresì a non confondere ceco con cieco e fare la solita battuta che ha decisamente stufato).
Affannati dalla calura d’Agosto (sì, in Russia fa caldo in estate) in quel di Vladimir, vediamo un chioschetto e ci fermiamo a fare colazione con formaggio affumicato e birra. Quand’ecco la visione: una delicata ed eburnea bambola di porcellana, dalla pelle liscia come la seta, dai lunghi e dritti capelli d’oro, dagli occhi celesti che neanche il cielo più limpido e luminoso è così bello, un corpo perfetto e slanciato come un abete siberiano che tende al cielo sopra la taigà, prodigio della vita e capolavoro del genere umano. Una bella figa, insomma. Faceva l’officiante e rispondeva al nome di Larissa e, quando si dice che piove sempre sul bagnato ma senza accezione negativa, aveva anche una sorella gemella, non ricordo il nome, molto bella pure lei, ma la mia preferita era Larissa.
In attesa della birra e del formaggio ero lì che stavo mentalmente organizzando la nostra festa di matrimonio. Mia e di Lara, non mia con la birra e il formaggio. Non ero ancora pronto per una storia a tre. Lara, dopo avere ordinato avevo abbattuto quella barriera invisibile che mi blocca dall’utilizzare il diminutivo finché non si è amici, danzava leggiadra fra i tavoli scoloriti di plastica del chioschetto come fosse l’etoile del Bolshoj o la prima stella della sera e mi sembrava lecito pensare a mettere su famiglia con lei. Lei aveva poco più di vent’anni e io poco meno di trenta. Era praticamente fatta, certo restavano ancora da definire alcuni dettagli tipo dove prendere casa e quanto procreare, ma col tempo tutto si sarebbe sistemato.
Insomma, ero lì che pensavo a quali pezzi fare eseguire all’orchestra sinfonica durante le nozze: la marcia nuziale di Mendelssohn, troppo scontata e abusata; l’ouverture da Le Nozze di Figaro suonata dai Berliner diretti da Abbado mi sembrava la scelta migliore. Certo non ero sicuro al cento per cento che Claudio e i Berliner sarebbero intervenuti al nostro matrimonio, dato che immaginavo avessero molti impegni. Sarebbero poi seguiti dei ballabili famosi di P.I. Tchaikovskji, tipo il valzer dei fiori. La scaletta stava progredendo quando arrivarono al chioschetto due sposi, con amici al seguito, che si apprestavano a festeggiare proprio lì, in modo kitch, la loro unione. Una splendida coppia di sposini russi, tavoli e sedie di plastica, cibo da strada, sudore stagnante sotto il gazebo, risate alcooliche. Ecco, avevano interrotto il mio sogno. Gli amici della coppia aprirono il cofano di un paio di Lada e cominciarono ad estrarre casse di champagne russo e vodka, si vede che quello che avevano già in corpo non gli bastava, e poi giù a fare baldoria.
Ma dico, stavo organizzando la festa del giorno più bello con Lara e questi mi fanno irruzione nei pensieri come dei cavernicoli? Praticamente, ormai distratto, non potei proseguire coi preparativi. Penso ancora che sia stato questo a impedire il nostro matrimonio oppure il fatto che la mia conoscenza del Russo si limitasse a un paio di saluti e qualche parolaccia. Comunque non ho mai detto nulla a Larissa. Anche lei, però, mi avesse almeno chiesto da dove venivo. Nonostante ci sentiva parlare in una lingua che non era la sua la curiosità non fece presa su di lei.
Il sarcofago che copre il reattore numero quattro della centrale atomica di Chernobyl.
Forse alcuni di voi avranno visto la serie TV Chernobyl prodotta da HBO, io no. Per chi non l’avesse vista e per chi, data la giovane età, non ha memoria di quanto accaduto il 26 Aprile 1986 ecco uno dei primi notiziari andati in onda sulla televisione Italiana.
Sono anni che volevo visitare i luoghi di quella tragedia che è considerata il più grande disastro nucleare della storia dell’uomo e che ha avuto ripercussioni, seppur di piccola entità, anche in Italia, dove si consigliava di non mangiare alcune verdure e bere il latte. Qui siamo sopravvissuti tutti, anche perché non c’era motivo di preoccuparsi, l’ho sentito dire da Piero Angela e quindi è vero.
Durante la mia ultima visita in terra ucraina ho avuto la possibilità di entrare nella zona di esclusione per una giornata.
La zona di esclusione si estende per un raggio di trenta chilometri dal centro del disastro, il reattore numero quattro della чаэс (centrale atomica di Chernobyl). Si tratta di una zona militarizzata quindi non è possibile entrare in autonomia ma occorre rivolgersi a un tour operator, perché ormai visitare la zona è una questione turistica. La nefasta tragedia è talmente legata alla storia del Paese che c’è anche una maldestra riproduzione nel parco Ukraina in miniatura di Kiev.
Dunque, ci sono molti tour operator con base a Kiev che sono proliferati negli anni e che offrono vari servizi tipo visita in giornata, visita di più giorni o tour privato. Per motivi di tempo la mia scelta è ricaduta sulla visita in giornata. I prezzi per i cittadini non ucraini si aggirano sui 100 USD più 5 se volete noleggiare un dosimetro (non lo consiglio perché durante il tour sarete sempre in compagnia di una guida che non vi farà scorrazzare da soli e vi porterà solamente nei luoghi meno radioattivi), più 10 USD se volete pranzare alla stolovaja della centrale nucleare (questo lo consiglio perché il menù e il servizio sono tipicamente soviet).
Il punto di ritrovo è vicino alla stazione centrale di Kiev dove mi aspettavo una stupenda e un po’ decadente marshrutka con un burbero autista che sgranocchia semki e invece ho trovato un autobus gran turismo da cinquanta posti. Ad ogni modo, dopo il check-in si parte e uscendo dalla capitale le guide raccontano cosa è successo, perché è successo e qualche aneddoto mentre si percorrono le tipiche strade ucraine con dossi e buche ogni tre per due.
Per amore della sintesi non vi sto a raccontare tutta la vicenda anche perché c’è chi lo sa fare meglio, un’esaustiva inchiesta la trovate qui.
A trenta chilometri dal reattore si incontra il primo check point chiamato Dytiatki, dove vi verrà consegnato il biglietto d’ingresso e un particolare dosimetro da portare al collo (non quello citato sopra) che dovrete restituire ai militari quando uscite, serve agli enti statali per monitorare la quantità di radiazioni che i visitatori accumulano durante le escursioni nella zona. Chi fosse intimorito dall’accumulo delle radiazioni nel proprio corpo può anche fermarsi qui, sedersi su una panchina e guardare una gigantografia del reattore, ma se siete arrivati a questo punto è perché avete già pagato almeno 100 USD quindi andrete avanti a tutti i costi.
Risaliti sull’autobus come un qualsiasi gruppo di asiatici in gita in una qualsiasi città europea ci avviamo verso la prima tappa: il villaggio abbandonato (ovviamente) di Zalissya. Questo luogo è tra quelli che si è conservato meglio nei passati trentatrè anni di abbandono perché era tra i più ricchi, nel senso che gli edifici furono costruiti con mattoni e non con legno. Le costruzioni, avvolte quasi completamente dal bosco e in totale stato di degrado, hanno i vetri infranti. Questo è dovuto al fatto che i liquidatori, cioè coloro che dovettero letteralmente lavare le aree radioattive, hanno avuto ordine di bruciare e sotterrare tutti gli oggetti che potevano; si dice quindi che, nella fretta di eseguire questo compito, abbiano gettato dalle finestre quanto più potevano.
Ora, il fatto di trovare la copia di un giornale datato 7 Marzo 1986 in uno stato di conservazione dignitoso dopo trentatrè anni mi fa pensare che qualcuno possa avere “inavvertitamente” e “leggermente” alterato la situazione.
Una copia delle медицинская газета (rivista di medicina) datata 7 Marzo 1986. Il titolo annuncia una nuova edizione del programma del partito comunista dell’Unione Sovietica.
Anche altri oggetti sembrano messi tristemente in posa nell’attesa attesa che un turista scatti una fotografia toccante.
Questo comunque non intacca il trasporto emotivo che si prova stando in luoghi abitati fino a (relativamente) poco tempo fa da esseri umani. Quello che mi distrae di più da pensieri profondi sulla nostra debole condizione umana sono gli altri turisti.
DUGA-1: il picchio sovietico
Girando per la zona arriviamo a una fermata d’autobus che preannuncia l’ingresso a un campo estivo per giovani pionieri, ma qui colpo di scena magistralmente messo in atto dagli attori del tour operator: in realtà la fermata è un falso, messo lì dai sovietici solo per ingannare il passante di turno e celare il luogo militare chiamato DUGA-1, ovvero un radar per intercattare i missili occidentali.
Il radar DUGA-1 è l’unico esemplare rimasto dei tre radar sovietici che avevano il compito di intercettare i missili lanciati dall’occidente.
Questa costruzione, alta 150 metri e lunga 450, serviva per intercettare eventuali missili lanciati dall’occidente verso l’Unione Sovietica. Era chiamato “il picchio” perché emetteva suoni tipo quelli di un uccello che becca la superficie di un albero. Questo è l’unico esemplare a non essere stato smantellato dopo il crollo dell’URSS, un altro era in quella che è ora la Bielorussia e un terzo era installato nell’estremo oriente russo.
Irritato dal poco tempo che ho a disposizione per scattare qualche foto, risalgo sull’autobus che si dirige verso un altro luogo strappa lacrime: un asilo radioattivo.
L’asilo
Quanti ricordi felici dell’infanzia si possono trovare in un asilo: i giocattoli, gli armadietti, i lettini e i primi libri. Ecco cosa accade dopo una trentina d’anni di esilio forzato.
Le bambole messe in posa per i turisti e il registro di classe, datato 1976, misteriosamente ben conservato più altri oggetti quali giocattoli, scarpette e lettini arruginiti sono il centro emotivo di questo edificio. Nonostante gli sforzi per rendere emozionale questa visita provo solo un effetto nostalgia, anche il mio asilo sarebbe così se fosse stato abbandonato, perché so che qui non sono veramente morti dei bambini.
Ora viene la parte più interessante della giornata: il pranzo. Interessante perché la stolovaja (mensa) della centrale nucleare è rimasta come allora, tranne qualche piccolo intervento di tinteggiatura color verde ospedale, e anche il menù è lo stesso degli anni ottanta, studiato per apportare la giusta nutrizione a persone che erano potenzialmente esposte alle radiazioni. Ancora oggi i lavoratori della centrale mangiano qui. Dunque avanti con un bel pranzetto dal gusto soviet. Kotleta con patate, insalata di carote, kapusta, gli immancabili cetrioli e da bere mors e kompot.
Immancabile la fermata nei pressi del reattore numero quattro, quello che è letteralmente esploso per una serie di coincidenze sfortunate e di un approccio incompetente da parte di alcuni operatori. Almeno questo è emerso ad oggi da tutte le inchieste intraprese. Il cosidetto sarcofago che ricopre il reattore pare sia la struttura mobile più pesante al mondo, più di 30.000 tonnellate. E’ stato assemblato a poche centinaia di metri di distanza e poi messo in posizione spostandolo su binari. Questa struttura dovrebbe essere sicura per almeno un centinaio di anni, nel mentre si sta procedendo allo smaltimento del materiale radioattivo ancora all’interno. La speranza è che fra cento anni la tecnologia si sia ulteriormente evoluta per poter permettere il continuo dei lavori in sicurezza.
Nonostante la vicinanza al reattore, il livello di radiazioni è contenuto e misurato in circa 1,10 micro Sievert per ora. Il limite di legge in Ukraina è di 0,30. Vi assicuro che nella foresta e nei villaggi abbandonati il dosimetro ha registrato un valore anche dieci volte più alto.
Con la pancia piena di prelibatezze post-sovietiche il gruppo si dirige ora verso quello che è il landmark della zona, conosciuto in tutto mondo per la ruota panoramica del suo luna park: la città di Pripyat’.
Pripyat’
Pripyat’, la città modello del socialismo la cui costruzione è iniziata nel 1970 e non si è mai conclusa. Era infatti ancora in espansione quando accadde l’irreparabile nel 1986. I cittadini erano felici, le paghe per chi lavorava nella centrale nucleare erano al di sopra della media dell’unione, tutto era stato progettato e costruito a misura d’uomo. Nulla sembrava intaccare quell’angolo di paradiso.
Tutto procedeva secondo i canoni della vita socialista dettati dal partito, mamme portavano a spasso i loro bambini nei parchi e lungo i viali alberati della città, ingegneri lavoravano per il progresso dell’Unione Sovietica. C’erano piazze, alberghi, palestre, piscine, bar, una pista di atletica, un parco giochi. Se non che, nella notte tra il 25 e il 26 Aprile del 1986 quella pace si interruppe drasticamente. Per sempre. Camminare oggi, dopo trentatrè anni, per le strade di Pripyat’ significa camminare in un luogo dove la natura si stà riprendendo tutto quello che non è stato saccheggiato durante i numerosi atti vandalici.
Piscina coperta nella città abbandonata di Pripyat’.Interno di una palestra.Tribuna della pista di atletica.La pista di autoscontro del luna park.Al piano terra di questo edificio sono stati radunati tutti gli oggetti che gli abitanti avrebbero potuto portare via. Quasi nessuno si è presentato a ritirarli.
La tristemente famosa ruota panoramica, che non ho messo qui perché è possibile trovare centinaia di foto online, curiosamente non è mai stata utilizzata. La sua inaugurazione era prevista durante le festività del primo Maggio 1986.
Ultima tappa della gita è la caserma dei vigili del fuoco di Chernobyl. Quando è arrivata la chiamata di allarme si pensava che si trattasse di un incendio, nessuno aveva realmente compreso quello che era accaduto. I primi uomini arrivati sul posto non erano minimamente attrezzati per affrontare un disastro nucleare e, anche se probabilmente si erano resi conto del pericolo, non si sono tirati indietro. Fuori da quella caserma, ancora funzionante, oggi c’è una scultura commemorativa. Posta su quella scultura vi è una targa. C’è scritto “A quelli che hanno salvato il mondo”.